Terrifier 3 | La Recensione

di Massimo Costante

Prima di raggiungere la notorietà come fenomeno commerciale, Terrifier era un piccolo cult per gli appassionati di horror underground. In Italia è salito agli onori delle cronache per un caso curioso: un insegnante, durante un’ora di supplenza in una terza media, consentì la visione del film. Alcuni studenti accusarono malesseri, i genitori reagirono con rabbia, e la scuola si trovò in imbarazzo, sebbene il caso si sgonfiò rapidamente. Tuttavia, questa pubblicità imprevista contribuì alla diffusione del film, già noto per il suo crudo e spietato approccio alla violenza.

Diretto da Damien Leone, il film segue le gesta di Art the Clown, un killer sadico diventato un’icona dello slasher moderno. Il primo capitolo si distingue per un focus quasi esclusivo sulle uccisioni brutali e inventive, rinunciando a una trama articolata per concentrarsi su una sequenza di efferatezze. In questo senso, il film si guadagnò la reputazione di uno dei più raccapriccianti nel genere horror, nonostante non fosse realmente “il più spaventoso di sempre”, come sostenuto da alcuni.

Terrifier, l’evoluzione di uno slasher indie

Con il secondo capitolo, Damien Leone ha iniziato a espandere l’universo narrativo di Terrifier, attribuendo ad Art una dimensione sovrannaturale e quasi luciferina. A partire da questo punto, l’assassino non è più soltanto un sadico clown ma assume connotazioni mitiche, evocando persino simbolismi biblici. Accanto a lui viene introdotta Victoria Hayes, una figura inquietante descritta come una prostituta deturpata e al servizio del male. D’altro canto, Leone introduce anche una sorta di “Angelo della salvezza”, rappresentato da Sienna, una giovane donna che si contrappone al clown come sua nemesi e che diventa un pilastro fondamentale della storia.

Nel terzo capitolo della saga, Leone spinge ancora di più su questi elementi simbolici. Il personaggio di Sienna, interpretata da Lauren LaVera, combatte Art con un’armatura dorata e persino una corona di spine, armata di una spada che sembra forgiata per uno scopo sacro. Tuttavia, questi riferimenti cristiani, mai smentiti dal regista, appaiono più come una provocazione che come una reale ispirazione religiosa. Infatti, il film si diverte a ribaltare i significati sacri, trovando la sua forza nella brutalità quasi “slapstick” con cui demolisce i corpi umani. In questa chiave, Terrifier diventa il contrario della dottrina cristiana del corpo come sacro, trasformandolo in un oggetto da mutilare per il puro intrattenimento visivo.

Nonostante ciò, la saga non si limita alla violenza fine a sé stessa. Con il passare del tempo, Terrifier ha trovato una sintonia sorprendente con il pubblico contemporaneo, forse grazie alla nostalgia di un corpo “reale” in un’epoca dominata dalla smaterializzazione digitale. Art the Clown, con il suo ghigno muto e la sua brutalità meccanica, incarna la paura del futuro e la violenza insita nelle distopie tecnologiche, offrendo una riflessione implicita sulle nostre ossessioni moderne.

Questa capacità di dialogare con i tempi ha permesso a Terrifier di superare i confini del cinema di nicchia, mentre altri film simili, anche di grande qualità, sono rimasti relegati all’underground. La fortuna del franchise, dunque, non è solo merito delle abilità registiche di Leone, ma anche del suo tempismo nel catturare le inquietudini del presente.